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CITY OF HOPE Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 ottobre 1993
 
di John Sayles, con Vincent Spano, Tony Lo Bianco, Angela Bassett (Stati Uniti, 1991)
Il cinema americano è fatto anche dai John Sayles. Romanziere, autore teatrale, sceneggiatore, e rappresentante misconosciuto (sette film negli anni Ottanta, dei quali uno solo distribuito in Europa) del cinema indipendente. Il che, nell'universo dominato da Hollywood, significa girare un film come CITY OF HOPE per la miseria di 5 milioni di dollari.

CITY OF HOPE - e scusate se è poco - è girato come un film di Robert Altman. Un solo luogo, quindici personaggi principali: ma nessuno di loro che prenda il sopravvento, nessuno che diventi il portavoce dell'autore. Lo spettatore, come attratto da una ragnatela che si costruisce progressivamente sullo schermo, non sposa la causa di nessuno: semplicemente, è condotto per mano per seguire un destino collettivo che si fa, verso la fine del film, individuale.

Una città chiamata Hudson City (si tratta, in effetti di Cincinnati), un imprenditore immobiliare corrotto, un consigliere muncipale di colore, onesto ma pieno di dubbi, dei giovani - bianchi, neri - con cause diverse, ma non molto dissimili effetti di difficile inserimento. Attorno a loro, uno spettro di personaggi più o meno interdipendenti, da quelli della classe politica che tira i fili, ai militanti neri più o meno radicali. Un luogo qualunque, una storia comune, dei personaggi banali; e nessuna star fra gli attori, nessun avvenimento travolgente come un bel crollo di grattacielo o almeno un umile scontro ferroviario. Perché, allora, CITY OF HOPE è, al contrario, un film che spicca per originalità nel panorama imperante di dinosauri e fuggitivi vari? Per la ragione solita: che non è tanto la storia che conta, quanto il modo di raccontarla...

La "forma" del film ci prende per mano: grazie al montaggio, alla progressione drammatica che fa incontrare - più o meno casualmente - i diversi personaggi, grazie all'intervento nello spazio cinematografico (uso orizzontale dello scope, che conferisce una grande vitalità alle scene stradali, come in quella bellissima della seduzione amorosa di Vincent Spano; oppure verticalizzazione, nelle molte sequenze d'interni, che rafforzano il discorso sulle differenze, le dipendenze gerarchiche), ai movimenti di macchina che dettano nuovi risvolti alla vicenda, nuove svolte ai destini che s'incrociano, gli spettatori sono condotti ad interessarsi progressivamente a delle faccende alle quali - a priori - si disinteressavano completamente.

È come se la somma di tanti, umili fattori portasse ad un totale assai più importante del previsto: quello del bilancio del solito melting pot americano, nel quale il conflitto fra l'individuo ed il sistema che lo governa non è ormai più di ordine ideologico: ma culturale, razziale, economico e famigliare. Un sistema, come lo definisce Sayles stesso, ormai tribale. All'interno del quale il problema è di riconoscersi in una tribù, e nella pressione che questa è in grado di esercitare: il separatismo femminista, o quello etnico.

Il miracolo (americano, ma anche del film) è che questo Sogno ormai infranto sembra essere sempre in grado di rigenerarsi, di risorgere dalle proprie ceneri. La ragnatela di CITY OF HOPE indica il cammino di questa degenerazione; ma anche della possibilità (si pensi al finale aperto alle diverse conclusioni) di rinascere. Moderno nella forma, ma tradizionale nell'eternità del discorso (si pensa alla letteratura fra le due guerre, si è citato a proposito l'analisi sociale di qualcuno come il Dos Passos di "Manhattan Transfer") il film di John Sayles è un esempio perfetto di come il cinema potrebbe essere: abbordabile economicamente, avvincente e, pensate, pure intelligente.


   Il film in Internet (Google)

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